31 gennaio 2009

Quando Fellini "girava" a Capranica - Amarcord


Realtà e sogno. In tutti i film di Fellini ricorrono queste due caratteristiche. In tutti i suoi film si mescolano, si uniscono, si concatenano, si rincorrono instancabilmente. Ma, d'altronde, che cos’è la vita se non un gioco di dolci-amari contrappunti tra questi due elementi?
Era l’estate del 1950 quando Fellini girava a Capranica. Per l’esattezza il mese di luglio. Il dopoguerra era la realtà di quel tempo. Una realtà dura, faticosa, piena di rimpianti e di macerie. Il sogno, invece, era quello di un’Italia migliore, che solo quattro anni prima si era espresso chiaramente nel risultato del referendum popolare del 2 giugno. E in questa realtà amara, che assaporava il dolce del sogno di una vita finalmente diversa, Fellini, per la prima volta da regista, girava a Capranica. Girava con la sua troupe fatta di professionisti e il suo cast di attori occasionali, insieme ad attori già famosi. Così come veniva comandato dal cinema neorealista che si faceva in quegli anni. Forse anche questo faceva parte del gioco: mescolare grandi speranze, povere illusioni infrante sugli scogli di una misera effimera comparsa, con brillanti affermazioni artistiche alla ricerca dell’ultima conferma professionale. Capranica era stata scelta come sede di alcune scene, probabilmente dallo stesso Fellini, che di quel film firmò anche la sceneggiatura (oltre che il soggetto e la produzione). Forse la vicinanza a Roma, o a qualche buona trattoria, come spesso succedeva, i motivi della sua designazione come location. In quel lontano luglio di cinquantatre anni fa, a Capranica capitò quindi di tenere a battesimo la prima regia di quello che sarebbe diventato poi, Maestro incontrastato nel panorama cinematografico italiano e internazionale. E gli toccò ospitando la messa in scena dell’ennesima illusione, dell’ennesimo sogno, materializzato stavolta da una scalcinata compagnia di comici e soubrette di provincia alla ricerca della grande occasione per sfondare, finalmente, alla ribalta nazionale. La piazza di Santa Maria e il suo Campanile, l’entrata del Cinema San Terenziano, la Piazza di San Francesco, il Ponte dell’Orologio, e Capranica stessa, in una bella inquadratura dalla Cassia, fanno così da ambientazione a una storia di sogni. Protagonista è Checco, interpretato da Peppino De Filippo, capo-comico “fucinatore d’ilarità” di una compagnia di varietà che si sposta di teatro in teatro, di palcoscenico in palcoscenico, in attesa di approdare alla agognata “volta buona”. Già, la “volta buona”. Ecco il sogno. Un sogno che si rivela però come una meta irraggiungibile, come un miraggio impossibile destinato a sparire non appena ti avvicini. Che fa a pugni con una realtà fatta di espedienti di vario genere escogitati per tenersi a galla, campando alla giornata. Che rivela l’assurda mancanza di un progetto artistico da seguire e realizzare. Un sogno che è costretto a fare perennemente i conti con l’esigenza di sbarcare a tutti i costi il lunario. Rappresenta bene Fellini questo aspetto, che è poi in un certo senso il leit-motiv del film, nella sequenza della cena ambientata a casa dell’avvocato Conti, interpretato da Folco Lulli (sequenza che, tra l’altro, comincia con una bella inquadratura notturna del Ponte dell’Orologio). La cena dopo lo spettacolo è un elemento ricorrente nelle compagnie teatrali, ma qui diventa un’esigenza primaria. E il sogno? Agli orti quando ci si deve riempire la pancia! L’obiettivo insiste con atteggiamento di pietà e spietatezza, sui particolari della cena, trasformata ben presto in una grande abbuffata per tutti i componenti della compagnia. E l’uso sapiente dei primi piani mette in risalto la crudezza di mascelle occupate a masticare, quasi a divorare il cibo, o l’eloquenza di occhi che parlano, ammiccando, in luogo delle bocche riempite all’inverosimile. Ecco la realtà. Una realtà che rende il risveglio dal sogno ben più amaro che la stessa realtà lasciata: fare i conti con l’esistenza di tutti i giorni insomma. In una parola, con il vivere.
Così anche Capranica diventa parte di questo sogno. E mentre per Checco non sarà altro che una tappa nel suo cammino instancabile alla ricerca della sua benedetta-maledetta “volta buona”, per Fellini rappresenterà invece qualcosa di più. A Checco infatti non riuscirà di sfondare, non riuscirà di realizzare il suo sogno. Fellini, invece, a Capranica lo inizia e lo realizza allo stesso tempo. Lui che era entrato quasi per gioco nel mondo del cinema, sceneggiatore prima, aiuto-regista poi, realizzava a Capranica e con Capranica la sua aspirazione più ambita. La sua “volta buona” era arrivata. C’era riuscito. Era un regista.



Amarcord 
“Mi devi trovare un po’ di materiale che ci facciamo un pezzo sul Corriere”. E’ una domenica uggiosa il 31 ottobre 1993. Di quelle tipiche d’autunno, con quella nebbiolina leggera che rende tutto più strano, irreale, sonnolento. A Capranica c’è campagna elettorale, ma la notizia è di quelle che fanno interrompere i ragionamenti politici. E finalmente. Tanto, si ripetono stancamente ormai da un mese sulle stesse cose. E allora, stasera, si parla d’altro. Anche se l’argomento è triste. Si parla d’altro. Federico Fellini non c’è più. E’ morto oggi, a Roma, in un letto d’ospedale. Ci sono state polemiche nei giorni precedenti. Destino beffardo! Qualche “paparazzo” lo ha fotografato disteso sul suo lettino, in coma, con tubi e tubicini, e quelle foto sono state pubblicate dai giornali. Chi lo avrebbe mai detto che toccasse proprio a lui! Lui che lo aveva inventato Paparazzo… “Una cosa che non si fa” – mi dice Franco – “c’è un’etica da rispettare”. Ma subito ci vengono in mente i suoi film, fatti di clown, puttane, poveri cristi, sognatori, vagabondi. Pieni di atmosfere irreali, inventate, oniriche, ma rese straordinariamente vive da quelle musiche strane, al confine tra malinconia  e festa.  Siamo appena tornati da Viterbo, insieme a Carlo e Primo, e i ricordi ci stanno letteralmente avvolgendo. E’ presto per la cena. Andiamo al bar per prendere ancora qualcosa, e naturalmente incontriamo qualcuno che vuol attaccar discorso. Ovviamente, sempre lo stesso. Ma non ne vogliamo sapere. Al diavolo la politica! Parliamo di Federico, noi, non v’interessa? Al diavolo anche voi! Entriamo nel Borgo e quella nebbia sottile, quelle luci velate, i sampietrini di Corso Petrarca inumiditi, mi fanno venire in mente qualcosa di già visto. Un dejà vu? No… forse una scena di un film. Si, di un film in bianco e nero. L’ho visto da ragazzino, ma ne ricordo piano piano alcune immagini, nitide, precise. Non credo di sbagliarmi, è proprio un film di Fellini. Lo dico a Franco e lui strabuzza gli occhi. Mi chiede se sono sicuro, ma non ho bisogno di conferme ulteriori. Vedo il Ponte dell’Orologio ed ho la certezza. Ora mi ricordo anche il titolo: è Luci del varietà, ci lavora Peppino De Filippo e, sono sicuro, è di Fellini. Franco si convince anche lui. Tanto da chiedermi: “Mi devi trovare un po’ di materiale che ci facciamo un pezzo sul Corriere. Subito, nei prossimi giorni al massimo, altrimenti non ha senso…”. Gli assicuro di si. So già dove rivolgermi…
Purtroppo quel materiale non l’ho trovato. O, almeno, non l’ho potuto trovare subito L’ho trovato invece un paio d’anni dopo, quando non serviva più. Così quando l’ho detto a Franco, in un pomeriggio d’estate, la sua ultima estate, mi ha detto di tenerlo buono “tanto, prima o poi un’occasione capita… magari per il decennale della morte”. Così… dopo dieci anni… eccolo.



Capranica, dicembre 2003

27 gennaio 2009

La festa di Sant'Antonio Abate a Capranica


Gli animali e il fuoco. Sono questi gli elementi che ricorrono incessantemente per la festa di Sant'Antonio, invocato dalla pietà popolare per la protezione delle bestie domestiche e contro l'herpes zoster, il terribile fuoco di Sant'Antonio. Ancora oggi a Capranica, come in altre città d'Italia, il 17 gennaio si celebra questa tradizionale ricorrenza: un misto di elementi religiosi e pagani che affondano le loro radici nelle origini rurali della comunità. Una festa in cui la perpetuazione di antiche usanze e riti ancestrali, nonostante il cambiamento radicale degli stili di vita, avviene con una grande partecipazione da parte dei capranichesi, trasformando questo appuntamento annuale in un momento particolarmente suggestivo e allegro.

Ma chi era davvero Sant'Antonio? E che significato hanno i simboli a lui legati?
Eremita, taumaturgo, saggio, mistico, veggente: Sant'Antonio entra nella devozione popolare per una molteplicità di aspetti della sua personalità. Originario di Keman, in Egitto, dove nacque nel 251, la sua vita è narrata da Anastasio di Alessandria, che per primo ce ne riporta gli episodi salienti. Raffigurato in avanzata età, con l'inseparabile bastone a forma di Tau e il campanello, è sempre contornato da animali domestici, con i quali, secondo la tradizione, conversava amabilmente. Famoso anche per la sua lotta contro il demonio, subì tentazioni eccezionali dal cui fuoco si seppe difendere attraverso la preghiera continua. E in ricordo di questo fuoco, che ne tormentava l'anima, la vigilia della festa viene celebrata con il tradizionale focarone: 'u focarò.

Il fuoco. Il fuoco che illumina, che scalda, che consuma, che purifica.
A questo fuoco, che brucia oggi nel mezzo della Piazza VII luglio, venivano anticamente attribuite delle proprietà terapeutiche, forse magiche. Dalle sue ceneri, infatti, venivano ricavati gli unguenti lenitivi contro l'herpes zoster, il male degli ardenti. Chi ne soffriva veniva curato anche attraverso l'unzione con il grasso del maiale, animale tradizionalmente caro al Santo, per ottenere una pronta e definitiva guarigione. L'intercessione del Santo, da sempre ritenuto un potente taumaturgo, veniva invocata sul malato con fede e devozione, segnando con le dita la parte dolorante, riproducendo il Tau antoniano.

Oggi la festa di Sant'Antonio viene vissuta dai capranichesi come un momento di festa chiassosa, nell'attesa della benedizione degli animali... e perché no? Anche dei loro padroni. Il santo viene trasportato dai Confratrelli della Pia Società di Sant'Antonio Abate, vestiti con un saio che ricorda i panni dell'eremita egiziano, nella Piazza San Francesco facendosi largo tra la folla festosa. Mentre il Santo guarda verso la gente, che ancora oggi con devozione si ricorda del suo potente patrocinio, dal sagrato della Chiesa, dopo una breve orazione, il sacerdote scende per la benedizione dei numerosissimi animali, che impartisce con copiose aspersioni di acqua benedetta.
Al termine, tutti sono invitati a prendere un maritozzo di Sant'Antonio, distribuito dai confratelli della Pia Società, in segno di buon augurio perché l'inverno non riservi sorprese dannose ai raccolti, e di speranza per l'arrivo della primavera.
Evviva Sant'Antonio!