24 dicembre 2010

Il Verbo Divino

  
Gherardo delle Notti (Gerrit van Honthorst), Natività, Firenze, Uffizi

Il Verbo Divino

Il Verbo Divino scuote l'indolente,
sveglia l'assonnato.
Viene e bussa alla porta,
vuole sempre entrare:
dipende da quello che c'è in noi
se non sempre entra,
se non sempre rimane.

Sia aperta la porta a colui che viene:
schiudi la tua porta,
spalanca l'intimo dell'anima,
perché veda le ricchezze della semplicità,
i tesori della pace,
e la soavità della grazia.

Dilata il tuo cuore,
corri incontro al sole dell'eterna luce
che rischiara ogni uomo:
per tutti risplende quella luce vera.

Ma se qualcuno chiuderà le sue finestre
si sottrarrà alla luce che non tramonta.

Se chiudi la porta della tua anima,
allora Cristo resta fuori.
Potrebbe entrare,
ma non vuole invadere come importuno,
non vuole costringere
chi non è disponibile.

Nato dalla Vergine,
è venuto dal suo grembo
come luce dell'universo intero
per illuminare tutti:
lo ricevono quanti desiderano
la chiarità del suo fulgore senza fine,
che nessuno riesce ad offuscare.

Sant'Ambrogio, vescovo e dottore della Chiesa

27 novembre 2010

Don Piccolo

Estate 1992, Champoluc (AO), escursione ai laghi Pinter


Cinque anni fa volava in cielo Don Piccolo. Questo l'articolo che - indegnamente - scrivevo su LazioSette a nome di tutta la Presidenza diocesana di Azione Cattolica.

“Lui verrà! Verrà col tepore della primavera, o col sole dell’estate, o dopo un lungo freddo inverno, ma verrà…ci spalancherà le braccia e la sua gioia ci travolgerà!”

Ci mancherà quel suo sorriso semplice e contagioso. Ci mancheranno la sua cortesia sconfinata e la sua ironia leggera e gentile. Ci mancherà la sua straordinaria disponibilità ad ascoltare, ad andare incontro agli altri, a capirli a tutti i costi. Ci mancherà la sua umiltà intellettuale (lui con due lauree) e la sua semplicità disarmante. Don Pier Luigi se n’è andato nell’alba livida e piovosa della prima domenica d’Avvento. Così. In punta di piedi. Con la serenità di chi ha combattuto la buona battaglia e conservato la fede. Lui che aveva scelto di suscitarla, la fede, nella gente, negli altri, in chi incontrava nel suo giorno di prete. E forse il suo segreto, o la sua forza, stava proprio in quel nomignolo che egli stesso si era attribuito. In quel farsi “piccolo” che solo le anime grandi, per dirla con Benigni, sanno cogliere, e fare proprio. Fino ad assumerlo come stile quotidiano di vita.
Don “Piccolo” era fatto così. Amava le cose semplici, come le sue “bisacce”, che tanto richiamavano il pellegrino anelante verso quella “pietra preziosa” che spesso ricordava, e contemporaneamente guardava verso l’alto, alle cose grandi che ti mandano dritto verso il cielo. Servire facendosi ultimo: questo il suo programma di vita e di sacerdozio. Cristo e la sua chiesa, innanzitutto, e poi il suo vescovo, la sua gente, il mondo. E nel ricordino della prima messa, tutta la sintesi dell’incontro con “il suo Signore e il suo Dio”: quasi un manifesto. Prima con l’impegno nelle fila di Azione Cattolica, come vice-presidente diocesano giovani e membro della delegazione regionale del Lazio. Poi a Roma, durante il Seminario, con la forte esperienza tra i detenuti del carcere di Rebibbia. Infine nel sacerdozio, attraverso il quotidiano lavoro tra la gente di Manziana, che tanto ha amato e da cui subito si è fatto amare.
Ma “dire” di Don Pierluigi separatamente dalla “sua” Azione Cattolica, sarebbe assurdo. E’ qui, infatti, che per tutti diventava Don “Giggi” o, semplicemente, “Giggi”. E’ qui che era cresciuto nella fede ed aveva maturato la scelta di farsi prete. Qui, infine, era stato assistente diocesano del settore giovani, e ora, fino all’alba del 27 novembre, assistente unitario. Come non pensare, quindi, ai campi a Saint Jacques, ai ritiri al Soratte e a Civitella San Paolo, alle straordinarie GMG, alla quotidianità di San Giuseppe Operaio, agli incontri a Castel Sant’Elia., e poi alla “perla preziosa”, alla “bisaccia del pellegrino”, alla Regola spirituale dei giovani di A.C., ai viaggi a Roma, a Nazzano, al Seminario di Nepi….
E così non poterlo incontrare ancora, non poterci parlare, e sapere di non poter più farsi coinvolgere dal suo sorriso, ma di doversi accontentare invece, d’ora in poi e per sempre, solo del suo ricordo (diretto o evocato, fa lo stesso), lascia tanto tanto umano amaro in bocca…
Ecco allora che quel “Lui verrà!”, che imperscrutabilmente è emerso dalle pagine della guida unitaria di quest’anno associativo, e che ci conforta dicendoci: “Non abbiate paura: è risorto!”, diventa ragione e motivo di speranza per tutti noi. Per mamma Elena e papà Carlo. Per Paolo, il don “grande” della famiglia. Per i confratelli sacerdoti, per gli amici, i compagni di A.C., i parrocchiani di Manziana, per tutti. E sapere che Giggi è volato in cielo con l’assoluta certezza di partecipare alla eterna pace del Signore, deve farci sperare che lo rincontreremo, un giorno, vicino o lontano che sia, in quello stesso luogo celeste.
Lì non servirà più di ricordarci di lui o di ricordarselo, perché Don Giggi verrà ad accoglierci sulla soglia del Paradiso, spalancandoci le braccia e travolgendoci con la sua immensa gioia.
Di rivederci ancora.

pubblicato su "Avvenire - LazioSette", domenica 4 dicembre 2005

02 novembre 2010

Se mi ami non piangere


A te che piangi i tuoi morti, ascolta.

Se mi ami non piangere!
Se tu conoscessi il mistero immenso del cielo
dove ora vivo; se tu potessi vedere e sentire
quello che io vedo e sento
in questi orizzonti senza fine
e in questa luce che tutto investe e penetra,
tu non piangeresti se mi ami.
Qui si é ormai assorbiti
dall'incanto di Dio e dai riflessi
della sua sconfinata bellezza.
Le cose di un tempo,
quanto piccole e fuggevoli,al confronto!
Mi é rimasto
un profondo affetto per te;
una tenerezza che non ho mai conosciuto.
Ora l'amore che mi stringe
profondamente a te,
é gioia pura e senza tramonto.
Mentre io vivo
nella serena ed esaltante attesa,
tu pensami così!
Nelle tue battaglie, 
nei tuoi momenti
di sconforto e di stanchezza,
pensa a questa meravigliosa casa,
dove non esiste la morte,
dove ci disseteremo insieme
nel trasporto più intenso,.
alla fonte inesauribile
dell'amore e della felicità.
Non piangere più 
se veramente mi ami!

Padre Angelo Perico, s.j.
Resta con noi Signore!, San Paolo Edizioni, 2001 

Padre Perico ha avuto questa ispirazione ai piedi del letto di morte di suo papà.
 

30 maggio 2010

Pellegrinare per ricominciare


"Il pellegrinaggio ha senso
se fatto a piedi;
è un avvicinamento lento,
è un tempo:
non solo il raggiungimento della meta.
Il pellegrinaggio ha a che fare
con la solitudine,
è perdersi per ritrovarsi".

Erri De Luca

Capranica-Castel Sant'Elia a piedi. 19 km in solitudine passati a macinare grani di rosario. E a pensare. A me, alla mia vita, alla mia famiglia, ai miei amici, al mio impegno che non c'è più, alle mie paure di rimettermi in gioco... Da solo con la natura, i fiori, la bellezza del creato e dell'arte, con il mio spirito. Inquieto e stanco... ma felice. Di ricominciare.


Ricominciare 
(V. Ciprì - B. Enderle)

Ricominciare è come rinascere,
è rivedere il sole in un mondo di libertà,
è credere che la vita
si rianima davanti agli occhi tuoi
senza oscurità;
è sapere che ancora tutto puoi sperare.

Ricominciare è come rinascere,
dall'ombra di un passato che ormai non conta più,
è ritornare semplici cercando nelle piccole cose
la felicità...
è costruire ogni attimo il tuo domani.

Ricominciare è come dire ancora sì alla vita,
per poi liberarsi e volare
verso orizzonti senza confini,
dove il pensiero non ha paura
e vedere la tua casa
diventare grande come il mondo.

Ricominciare è credere all'amore
e sentire che anche nel dolore
l'anima può cantare e non fermarsi mai.

La chiesa romanica di Sant'Eusebio, nei pressi di Ronciglione




Fioriture della tarda primavera nei pressi di XXX Miglia



La basilica romanica di Sant'Elia


Il leone (Cristo) dalla cui bocca nasce la vite (la Chiesa)

28 maggio 2010

Ipse dixit - William Edward Deming


In God we trust; all others must bring data
William Edward Deming

(In Dio noi crediamo; tutti gli altri devono portare i dati)

23 maggio 2010

In principio Dio creò... Marcello Giombini


Il Maestro Marcello Giombini


"In genere i canti eseguiti in talune nostre
chiese
vengono dalla gente (specie dai giovani)
definiti "lagnosi";
al contrario dei Gospel e degli Spirituals
che - quando eseguiti
da "addetti ai lavori"- per questa
stessa gente "lagnosi" non sono;
e non lo sono nemmeno
quando esprimono sentimenti di tristezza o di dolore".


Marcello Giombini


Vi siete mai chiesti di come si svolgeva una liturgia eucaristica appena cinquant'anni fa? 

Era il 1960 e semplificando un po' (cercando di non banalizzare), si può sintetizzare dicendo che la Messa si celebrava in latino, con le spalle all'Assemblea; che gli uomini si sedevano a destra e le donne a sinistra (e con il capo velato); che la comunione si prendeva sulla lingua, in ginocchio sulle balaustre che delimitavano il presbiterio; e che la musica liturgica per eccellenza era ancora il canto gregoriano. Già, la musica litugica. 
Riguardo questo tema - che è poi ciò di cui si occupa "Note" di Chiesa - c'è da dire che nelle intenzioni dei Padri conciliari non è che ci fosse la volontà di innovare un granché. 
Per accorgersene basta leggersi qualche numero della Sacrosanctum concilium, la costituzione dogmatica sulla Sacra Liturgia, laddove viene raccomandato ai pastori di conservare “il tesoro della musica sacra” che “dev’essere preservato e incrementato con grande cura” (SC 114), o dove si afferma che “la Chiesa riconosce che il canto gregoriano è particolarmente adatto alla liturgia romana. Pertanto, a parità di condizione, ad esso deve riconoscersi il primo posto nei servizi liturgici” (SC 116), per finire con il ricordare il posto d'onore che spetta all'organo a canne o alla polifonia nelle solenni celebrazioni (ci sarebbe da dire altro ancora, ma l'argomento è tanto interessante che mi propongo di dedicargli un intero futuro post).

Tant'è però, che la situazione cambiò. E ciò accadde ancorché il Concilio Vaticano II in generale, o la Sacrosantum Concilium in particolare, non abbiano mai ordinato né la rimozione delle balaustre dei presbiteri, o previsto di prendere l'eucaristia sulle mani, o incoraggiato l'utilizzo della "popolana" chitarra nelle liturgie. Per alcuni fu un soffio più forte dello Spirito, un divino sconvolgimento dei piani umani; per altri, solo il soffio - tutto terreno - dei primi, mascherato dietro la scusa della volontà di Dio. Non entriamo nella diatriba.
Fatto sta che nelle chiese cominciò una vera e propria rivoluzione della musica liturgica con un completo e repentino adattamento ai tempi e alle mode musicali del momento. E così se nel 1965, appena chiuso il Concilio, il pop-rock dei Beatles spopolava, ecco che quello stesso stile musicale venne immediatamente trasposto pari pari all'interno della musica liturgica. Con tanto di invasione di chitarre, chitarroni (e "capelloni", come ricorda Renzo Arbore), bassi elettrici, batterie e organi. Quest'ultimi, almeno nel nome, nel pieno rispetto dei dettami della Sacrosanctum Concilium, ma con la variante fondamentale del suono, ben più simile a quello del mitico Hammond che a quello di un prestigioso Morettini a canne.

Sicuramente il principale artefice di questa trasposizione fu il Maestro Marcello Giombini, uno sperimentatore puro del pop-rock nella liturgia, le cui rivisitazioni di salmi, dossologie e canoni, tante polemiche suscitarono soprattutto tra i tradizionalisti.
Ebbene, benché questo autore sia considerato alquanto controverso (e tra poco vedremo perché), a nostro parere è di una importanza fondamentale per comprendere pienamente la portata dei cambiamenti della musica liturgica a partire dal Concilio Vaticano II.
Ma chi era Marcello Giombini?
Giombini (Roma 1928 - Assisi, 2003), fu soprattutto un compositore di musiche da film (oltre 100 le sue colonne sonore), con una particolare predilezione per il genere spaghetti-western (sue le musiche della trilogia sul pistolero Sabata, interpretato da Lee Van Cliff), anche se prima di approdare al cinema, alla fine degli anni '50, fu organista e direttore del Coro dell'Accademia Filarmonica Romana e dell'Orchestra Sinfonica di Roma. Oltre a lavorare per pellicole importanti, dove collaborò con registri del calibro di Dino Risi (sua fu la colonna sonora de "La marcia su Roma", con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi), musicò anche qualche pellicola "particolare", di quelle del cinema erotico de' noantri (quello che oggi si chiamerebbe softcore), o del "vedi e non vedi", tanto sforbiciate dalla censura quanto catalogabili tra i cosiddetti "B-movies". Tanto bastò per far gridare allo scandalo più di qualche prelato e bollare le musiche liturgiche di Giombini come sacrileghe.
Tuttavia, Marcello Giombini è a nostro parere - a buon diritto - forse l'iniziatore della musica liturgica moderna, a cui tanti altri autori dopo di lui si sono ispirati, a cominciare dal sacerdote comboniano Michele Bonfitto, certamente il più vicino allo stile giombiniano. La sua «Messa dei Giovani» (con testi di G. Scoponi) nel 1966 fece scalpore, ma fece anche scuola.
E seppure, a distanza di quasi quarantacinque anni, quei componimenti sembrano oggi tutto sommato ingenui, con un rock dal sound molto acqua e sapone, più vicino a quello suonato dall'Equipe '84 o da i Giganti che a quello praticato oltre Manica, c'è da dire che essi sono stati ormai metabolizzati dalle parrocchie e dalle assemblee liturgiche, tanto da farli diventare in certi casi dei veri e propri classici. Pensiamo al "Gloria" («Messa Alleluja», 1968), cantato ancora moltissimo sia in Italia che nei paesi di lingua spagnola, o al "Sanctus" («Messa dei Giovani», 1966), nella mitica esecuzione dei The Bumpers, pezzo simbolo della beat-generation ecclesiale. Ma come dimenticare altri brani come "Siamo arrivati da mille strade", "I semi del futuro", "Pace a te, fratello mio", il "Padre nostro", "Dio s'è fatto come noi", "Quando busserò", "Le tue mani", "Ecco il tuo posto", solo per citarne alcuni? Insomma: chi può dire di non aver almeno una volta cantato o suonato un pezzo di Giombini? E se c'è ancora chi oggi afferma che "La 'messa beat' (di Giombini, n.d.r.) ebbe l’effetto di una deflagrazione nucleare, con la fatale conseguenza di vedere riconosciuto 'diritto di cittadinanza liturgica' a una prassi tanto pericolosa quanto azzardata: e cioè, che la musica liturgica poteva essere – o doveva essere? – una semplice trasposizione della musica profana di moda" (è l'opinione autorevole di Valentino Miserachs Grau, Preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra, qui l'articolo "Gli attuali orizzonti della musica sacra", riportato sul blog di Sandro Magister, www.chiesa.espressonline.it), c'è anche da dire che forse, davvero, la troppa scienza offusca la profezia del soffio libero dello Spirito.
Quel soffio entro il quale anche Giombini, più o meno consapevolmente, si è trovato ad operare con la sua musica.

Qui sotto:
I Barritas, Sanctus (Santo beat)


 

 Link:

Sito web di Marcello Giombini
Voce "Marcello Giombini" su Wikipedia
Gloria dalla "Messa Alleluja" su Youtube
Gloria a due voci su Youtube

22 maggio 2010

Pentecoste

Giotto, la Pentecoste

Tra i tantissimi canti che risuonano nelle nostre chiese durante la Pentecoste, sicuramente quello che ricordo con più piacere è “Pentecoste”, di G. De Lazzaro e P. Manzari. E’ un canto che appartiene alla raccolta di canti delle Comunità Neocatecumenali, dalle quali pure l’ho sentito cantare. Nella mia parrocchia di Roma (I Santi Patroni d’Italia, alla Circonvallazione Gianicolense), e in quella dove abito ora (di un paese del Viterbese), lo eseguivamo un tempo in maniera molto diversa dalla originale versione neocatecumenale, con un 4/4 terzinato in luogo del 4/4 semplice, e con una contrazione dei tempi non cantati tra verso e verso, modifiche che rendono questo canto sicuramente più fruibile, orecchiabile e seguibile dall’Assemblea liturgica. Oltre a questa rivisitazione, un’altra variazione avevamo apportato. Ricordo pure, infatti, che eravamo soliti cominciare il canto dalla prima strofa e non dal ritornello. Ci sembrava più logico dal punto di vista dello sviluppo del narrato, e anche più conforme allo schema classico strofa-inciso-strofa caratteristico della musica leggera, ormai entrata a pieno titolo nella liturgia (che i puristi lo vogliano o no). Ebbene, ripensando in questi giorni di avvicinamento alla festa della Pentecoste al canto omonimo, ho sentito l’esigenza di tornare a leggerlo e ad eseguirlo. La musica – nonostante i quasi quarant’anni di età del pezzo – è tutto sommato ancora attuale, soprattutto se la confrontiamo con quella attualmente utilizzata nella liturgia, e riesce ad essere seguita agevolmente anche da chi ascolta il canto per la prima volta. Dal punto di vista del testo, invece, mi sono interrogato molto su tre o quattro versi che, ad una lettura attenta e più “matura” (mi si passi il termine), hanno subito attirato la mia attenzione. Qui mi voglio soffermare in particolare sull’utilizzo del termine “sepolto”, che gli autori inseriscono nell’ultimo verso della prima strofa. Ma è bene dare una rapida scorsa all’intero testo.

Innazitutto, nella prima strofa questo si sviluppa raccontando gli apostoli, chi sono, da dove vengono, cosa fanno, e li descrive come “poveri uomini”, ricordando il loro stato di umile estrazione sociale (pescatori, esattori delle tasse, “tra loro non c’era neanche un dottore”). Nella seconda strofa si passa invece a descrivere lo stato d’animo di questi uomini, pieni di paura (“avevano un cuore nel petto (...) che una mano di gelo stringeva”) e con la mente rivolta a pensieri umanamente condivisibili (“pensavano (...) all’amico perduto (...) alla donna lasciata sulla soglia di casa, alla croce...”). La terza strofa, infine, è divisa in due parti di quattro versi ciascuna. La prima metà è dedicata alla conclusione dell’azione temporale di cui parla il canto. E così si termina il racconto della Pentecoste descrivendo l’uscita in piazza “a cantare la gioia” dei discepoli che avevano ricevuto lo Spirito Santo, che viene pure descritto come il “vento” che “entrò come un pazzo in tutta la stanza”. Nella seconda metà, invece, l’azione è ormai conclusa e il testo si rivolge direttamente a chi ascolta portandogli la buona notizia che “il mondo che viene migliore sarà”. Ed è in questa direzione, ovvero in quella di chi ascolta, che si rivolge pure il ritornello, col quale si esce temporaneamente dal racconto del fatto della Pentecoste, per invitare l’Assemblea ad aprire i sensi (“ascoltare” e “sentire” il soffio nel cielo, la voce che viene; “vedere” le porte che sono scosse dal vento), per “andare lontano”, animati dalla speranza che alberga solo nei cuori di chi “sa aspettare”.

Ma torniamo al termine “sepolto”. Recita infatti il testo dicendo che “quello che chiamavano Maestro era morto e sepolto anche Lui”. Perché dire “sepolto”? Come non ricordare l’evento sconvolgente della Resurrezione? Eppure, come ricorda Giovanni, i discepoli avevano visto e creduto il primo giorno dopo il sabato (cfr, Gv. 20, 8), e “la sera di quello stesso giorno” (Gv. 20, 19), avevano gioito nel vedere venire Gesù tra di loro. E otto giorni più tardi lo avevano visto di nuovo quando era tornato tra loro per dire a Tommaso di mettere la sua mano sul suo costato per “non essere più incredulo ma credente!” (Gv. 20, 26-29). E benché, come ricorda Giovanni, “non avevano ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti” (cfr. Gv. 20, 9), erano sicuramente coscienti che Gesù non era più sepolto, ma che invece erano stati testimoni di qualcosa di straordinario, anche se non ancora spiegabile se non con il dono dello Spirito Santo che stavano per ricevere. L’uso del termine sepolto, utilizzato qui come participio passato del verbo seppellire, è quindi quantomai inopportuno, anche se lo si volesse forzatamente intendere nella sua accezione di sostantivo, e cioè come sinonimo di dimenticato, scordato, e quindi avvolto nell’oblio del tempo. Ma Gesù Cristo è il centro del tempo, l’alfa e l’omega, il suo inizio e il suo compimento. E questo, pure nella loro umile condizione, lo avevano capito bene i discepoli raccolti ad aspettare la Pentecoste e noi, che stiamo di nuovo per celebrarla. Per questo quel termine “sepolto”, proprio non mi piace. Anche perché tace l’evento fondamentale e salvifico della Resurrezione, e getta un velo di disperazione all’intenzione del canto, che non viene sollevato nemmeno dal refrain e dall’esortazione finale a guardare lontano.
Ecco, comunque, tutto il testo: 


PENTECOSTE
(G. De Lazzaro - P. Manzari, raccoltà «Risuscitò»)

Erano poveri uomini,
come me, come te;
avevano gettato le reti nel lago,
o riscosso le tasse alle porte della città.
Ch'io mi ricordi, tra loro,
non c'era neanche un dottore,
e quello che chiamavano maestro
era morto e sepolto anche lui.

Rit. Se senti un soffio nel cielo,
un vento che scuote le porte,
ascolta: è una voce che chiama,
è l'invito ad andare lontano.
c'è un fuoco che nasce
in chi sa aspettare
in chi sa nutrire
speranze d'amor.


Avevano un cuore nel petto,
come me, come te
che una mano di gelo stringeva;
avevano occhi nudi di pioggia
e un volto grigio di febbre e paura;
pensavano certo all'amico perduto,
alla donna lasciata sulla soglia di casa,
alla croce piantata sulla cima di un colle.

Rit. Se senti un soffio nel cielo...


E il vento bussò alla porta di casa,
entrò come un pazzo in tutta la stanza
ed ebbero occhi e voci di fiamma,
uscirono in piazza a gridare la gioia.
Uomo che attendi nascosto nell'ombra
la voce che parla è proprio per te;
ti porta una gioia, una buona notizia:
il regno di Dio è arrivato già!

Rit. Se senti un soffio nel cielo...



Link:

Il canto "Pentecoste" eseguito dalle Comunità Neocatecumenali su Youtube